Charles Auffret

L’Accademia di Francia a Roma, diretta da Richard Peduzzi, organizza nell’Atelier del Bosco di Villa Medici una mostra dedicata al lavoro dello scultore francese Charles Auffret (1929-2001), dal 9 maggio al 15 luglio 2007. Saranno esposte una ventina di sculture e oltre trenta tra disegni e schizzi, in questa retrospettiva, che intende porre l’accento sulla esigenza del suo fare arte e rendere omaggio a un grande artista, ancora poco noto, offrendo allo spettatore un magnifico esempio della scultura francese del secolo scorso. L’ARTISTA E L’OPERA Charles Auffret nasce a Besançon nel 1929. La sua vocazione di scultore è radicata proprio nel suo paese d’origine, così ricco di sculture gallo-romane e medievali (la Chiesa d’Autun, di Vézelay, di Cluny…). Sensibile a tutte quelle immagini di pietra, e nonostante le reticenze familiari, inizia la propria formazione presso l’Ecole des Beaux-Arts di Digione. Ben presto entra come apprendista nello studio di Pierre Honoré, che gli trasmette una solida conoscenza del mestiere: modellatura, taglio della pietra e calco. Nel 1951, si trasferisce a Parigi. Il nuovo ambiente favorisce la scoperta delle opere di due grandi scultori: Charles Malfray (1887-1940) e Charles Despiau (1874-1946). Per tutta la vita non cesserà di studiare il loro lavoro. Ammesso al concorso d’ingresso all’Ecole Supérieure des Beaux Arts, frequenta l’atelier d’arte monumentale di Janniot, noto per essere “l’atelier di competizione per il Prix de Rome”. Deluso, però, dall’insegnamento, preferisce concentrarsi sul disegno dei grandi maestri al museo del Louvre. Nel 1954, stringe amicizia con gli scultori Jean Carton e Raymond Martin: scambiano pareri sull’arte e, nella solitudine della sua vita parigina, questa amicizia gli sarà di enorme conforto. Si guadagna da vivere eseguendo lavori per i confratelli, specialmente per Constantin Brancusi. Nello stesso periodo inizia ad esporre, con una certa regolarità in spazi quali il Salon des Indépendants, il Salon d’Automne e il Salon du Dessin et de la Peinture à l’Eau. Nel 1963, si impiega come professore presso l’Académie Malebranche, il cui direttore artistico è il critico d’arte Maximilien Gautier. L’anno seguente riceverà il Prix del “Groupe des 9” – il più ambito tra i premi per la scultura allora esistenti – che veniva consegnato da scultori indipendenti. Tale premio, ottenuto dopo vent’anni di lavoro e di fatiche, gli consente finalmente di realizzare le prime fusioni. Nel frattempo conosce la donna che diverrà sua moglie, Arlette Ginioux, lei stessa scultrice e pittrice. Riceve, inoltre, il premio della Fondation Ricard, grazie al quale trascorrerà un anno sull’isola di Bendor (a sud della Francia), dove vedrà la luce suo figlio Jean-Baptiste. Partecipa a diverse mostre, collettive e personali, ricevendo ancora numerosi premi. Le sue opere sono attualmente parte delle collezioni di vari importanti musei. Nel 1991, sarà nominato professore presso l’Ecole Nazionale Supérieure des Beaux Arts di Rue d’Ulm a Parigi, dove insegnerà fino alla fine dei suoi giorni. Charles Auffret praticava il disegno costantemente, come un rituale quotidiano, quasi un’ascesi. Ogni cosa era degna d’essere ritratta sul suo taccuino. È ciò in cui consiste l’anima stessa del suo lavoro e dello sguardo che egli posava sul mondo e sulle cose, le forme, i corpi. Ognuno dei suoi schizzi può considerarsi come un’opera compiuta in sé. Al di là delle apparenze fisiche, dell’osservazione e dell’analisi della struttura corporea, egli cercava si svelare l’anima, di trovare e rendere palpabile la vita del suo modello, che si trattasse di un uomo, di una donna o anche di un animale. L’insegnamento fondamentale, che cercava sempre di infondere ai suoi studenti come a chiunque altro avesse avuto la fortuna di incontrarlo, si riassume in queste poche parole che non si stancava mai di ripetere: “il cervello va bene. Ma senza cuore, è poco. La mano, veste.” E questo è proprio ciò che conferisce alla sua opera, che si parli di scultura o di disegno, quel fascino e quella forza, così particolari, unici si può dire, al di là della scelta formale che non vuol tradire il sapere e il mestiere che gli è stato trasmesso, ma che si realizza in un’opera assolutamente personale e indipendente. IL LIBRO La mostra è accompagnata da un volume bilingue (italiano e francese), pubblicato dalle Edizioni Somogy, che comprende le riproduzioni a colori delle opere esposte a Villa Medici, un saggio critico di Yves Bonnefoy, un contributo di Cecilia Trombadori, l’intervista di Michel Archimbaud a Jean-Baptiste Auffret e un’introduzione di Richard Peduzzi.