Intervista a Gérard Garouste – Le classique et l’indien / Video 2

L’artista francese Gérard Garouste ha inaugurato il 14 ottobre a Villa Medici la sua esposizione-retrospettiva ” Le Classique et l’Indien “, in programma fino al 3 gennaio 2010. Qui ci parla del suo rapporto con l’Italia e con l’Accademia di Francia, del percorso attraverso i significati espliciti e impliciti della sua mostra, del ruolo della religione nella sua arte. Questa è la prima retrospettiva delle sue opere in Italia, e in particolare a Villa Medici, cosa significa per lei? Villa Medici è il luogo dell’accademismo per eccellenza, ma anche del suo contrario. Qui in origine erano in vigore i Prix de Rome, che formavano buoni artisti accademici. Poi Malraux ha scardinato questo sistema, sottolineando che non è sufficiente essere un buon artigiano per essere un buon artista, come poi ebbe a dire anche Duchamp. Malraux ha operato quindi una rottura con il passato e un’apertura verso il futuro, dando avvio a un’avventura moderna. Oggi gli artisti, e in primo luogo i borsisti di Villa Medici, sfruttano trasversalmente tutti i mezzi espressivi pur mantenendo un legame con il passato. Le diverse categorie e discipline non hanno più lo stesso valore di un tempo: io stesso mi esprimo con la pittura perché è quello che so fare, ma se ne fossi capace potrei usare il cinema e fare il regista. Grazie a Malraux e Duchamp, quindi, ci siamo sbarazzati delle categorie, siamo usciti dai dogmi dell’avanguardia. E l’Accademia di Francia è un’istituzione-simbolo, che invita gli artisti a prendere coscienza del passato e a fare proposte per il futuro. Senza cadere nella trappola del passatismo. Che percorso propone questa esposizione? Cosa c’è di “classico” e cosa di “indiano”? Nell’ambito di una retrospettiva, è “classico” illustrare e disporre i quadri in modo cronologico. Tra i dipinti esposti c’è un'”Annunciazione” – che rispetto alla lettura biblica dovrebbe rappresentare l’inizio – e una “Veronica”, o “Vera Icona”, che sarebbe perfetta per concludere il percorso. Iniziando, come in questo caso, dalla fine, il percorso diventa “indiano” perché rompe la cronologia tradizionale. Nella mostra è “indiano” anche il fatto che la pittura non è al centro delle mie preoccupazioni: la considero solo uno strumento al servizio degli interrogativi che pongo con la mia arte. Inoltre normalmente davanti all’arte e al bello siamo passivi, e a me invece interessa suscitare uno spirito critico, provocare domande, sbarazzarmi del concetto di bello e brutto per superare l’impasse della società moderna. Detto questo non bisogna mai andare in una sola direzione, ma trovare il giusto equilibrio tra “classico” e “indiano”, tra ragione e intuito: se fossimo solo “classici” saremmo troppo rigidi, se fossimo solo “indiani” rischieremmo invece di essere folli. I miti, e la religione in particolare, sono al centro di molte opere… Le mie intenzioni non sono affatto religiose, la trascendenza e la rivelazione non sono i temi della mia mostra. A me interessa piuttosto l’esegesi, lo studio dei testi originali, perché ogni traduzione costituisce un tradimento. Dobbiamo rendere i testi – come quello della Torà, fondamentale sia per il Cristianesimo che per l’Islam – visibili e perciò criticabili. Dobbiamo tornare all’ontologia, allo studio del rapporto tra gli esseri, ed eliminare dai testi religiosi la loro funzione di strumenti di potere. Restituiamo loro, perciò, la loro dimensione mistica e filosofica. E’ dovere dell’artista restituire quel significato metafisico che la religione tende ad escludere. Qual è il suo rapporto con l’arte italiana e i suoi protagonisti? Il mio primo successo è stato in Italia, non in Francia. Gianfranco Politi, il direttore di ‘Flash Art’, una importante rivista d’arte internazionale, aveva visto i miei dipinti e aveva subito detto: non puoi avere successo in Francia, lì funziona solo l’arte concettuale, devi esporre in Italia… Dichiarazioni raccolte da Michela Greco

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